Il grande tessitore dell’Unità nazionale, il politico meno popolare tra gli italiani, rivelato attraverso le sue stesse parole. Quelle dei diari giovanili e delle lettere intime alla famiglia, agli amici e alle donne, per la prima volta tradotte in italiano da quella strana madrelingua che era per il giovane Camillo un francese “piemontesizzato”, ma anche quelle delle missive in codice, che disvelano le reali intenzioni, spesso oscurate da intricate ragioni di opportunità politica, di un uomo al centro del momento più delicato della storia italiana. A questo Camillo privato fa da controcanto il Cavour pubblico, quello degli scritti e dei discorsi parlamentari, quello dei dissapori con Vittorio Emanuele e delle accese liti con Garibaldi, che manifesteranno due modi profondamente lontani di intendere la politica, una frattura tra due immagini del discorso pubblico che centocinquant’anni di Italia unita non saranno in grado di superare, due visioni dell’arte del governo che lo porteranno a scrivere, il 29 dicembre 1860: “Sono figlio della libertà, è a lei che devo tutto quello che sono. Se si giungesse a convincere gli italiani che hanno bisogno di un dittatore, sceglierebbero Garibaldi e non me. E avrebbero ragione”.
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