Quando si parla di gemme letterarie, di macchine narrative i cui meccanismi funzionano come gli ingranaggi di un orologio, di storie che riescono a ospitare, in poche decine di pagine, il respiro della letteratura, si allude a qualcosa che è realmente esistito – a quell’altissimo artigianato che ha avuto per motivi imperscrutabili la sua grande stagione nei primi decenni del secolo, e di cui libri come "In villa" giustificano il rimpianto. Gli ingredienti di base dai quali nascevano questi capolavori erano spesso, doverosamente, elementari: qui, un décor quasi convenzionale (la Firenze frequentata dalla colonia inglese, vista però da una distanza più ravvicinata del solito), una donna bellissima e a suo modo perduta, due uomini molto diversi che se la contendono, e al centro uno scabroso fatto di sangue. Ma per combinarli ci voleva la mano di un maestro come Maugham. Che in questo romanzo ritroviamo al suo meglio: trame impeccabili, cliché affettuosamente massacrati, lampi di letale ironia sparsi fra le battute di una conversazione elevata a forma d’arte. E il tutto in uno spirito di devota fedeltà a un dio esigente: il piacere della lettura.
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