Nell’estate del 1148 d.C. Khalaf ibn Ishaq, mercante in Palestina, scrive una lettera all’amico ebreo Abraham Ben Yijū, che viveva allora in una città di nome Mangalore, un porto sulla costa sudoccidentale dell’India.
Era una stagione movimentata quella, in Palestina. In aprile era arrivata un’armata tedesca al comando dell’anziano re Corrado III di Hohenstaufen, noto agli arabi come Alamān. Al seguito del re c’era il nipote, il giovane e carismatico Federico di Svevia. Subito dopo era giunto a Gerusalemme Luigi VII di Francia con il suo esercito, la moglie, l’affascinante Eleonora d’Aquitania, destinata a essere successivamente regina di Francia e d’Inghilterra, e un corteo di nobili.
Il 24 giugno del 1148 la più massiccia armata di crociati di tutti i tempi si era accampata nei frutteti intorno a Damasco.
Scrivendo a Ben Yijū, tuttavia, Khalaf non si dilunga affatto su questi avvenimenti. Parla di alcune merci inviategli da Ben Yijū, un carico di noci d’areca, due serrature prodotte in India, due coppe d’ottone, e annuncia all’amico che insieme con la lettera gli manderà alcuni doni: due vasi di zucchero, un vaso di mandorle e due di uvetta.
Alla fine della missiva, Khalaf ibn Ishaq nomina quasi di sfuggita uno schiavo indiano di Ben Yijū al quale raccomanda di porgere «moltissimi ringraziamenti».
La lettera è catalogata come manoscritto H.6 alla Biblioteca Nazionale e Universitaria di Gerusalemme.
Attraversando i sottili confini che separano il presente dal passato, con in mano soltanto il frammento di questa lettera, Amitav Ghosh si mette alla ricerca dello schiavo indiano che vi è nominato, una figura che gli appare come una chiave per intendere e raccontare una Storia fatta di tante storie, diaspore e guerre, tradizioni e incontri, rotture e sparizioni.
Centro della vicenda sono due villaggi egiziani, luoghi di uno straordinario apprendistato linguistico e umano, e punti di partenza per una lunga indagine: per più di dieci anni Ghosh insegue lo sconosciuto, costruendo un meraviglioso romanzo in cui tutto è rigorosamente vero.
Ombra consapevole dell’antico schiavo, il moderno ricercatore percorre un duplice itinerario: quello nell’universo medievale, lungo le rotte mercantili che dal Maghreb attraverso l’Egitto portano in India; e quello nell’universo contemporaneo, lungo le rotte aeree che da oriente portano a occidente – e da una religione all’altra, da una lingua all’altra.
«Amitav Ghosh è un grande narratore, un maestro della lingua».
Die Zeit
«Ghosh è uno scrittore seducente… un maestro, una fonte di infinito piacere per il lettore».
The Age
«Ghosh è uno degli scrittori della sua generazione dalla prosa più raffinata».
Financial Times
«Lo schiavo del manoscritto è un viaggio ricco e avvincente».
The Times
Era una stagione movimentata quella, in Palestina. In aprile era arrivata un’armata tedesca al comando dell’anziano re Corrado III di Hohenstaufen, noto agli arabi come Alamān. Al seguito del re c’era il nipote, il giovane e carismatico Federico di Svevia. Subito dopo era giunto a Gerusalemme Luigi VII di Francia con il suo esercito, la moglie, l’affascinante Eleonora d’Aquitania, destinata a essere successivamente regina di Francia e d’Inghilterra, e un corteo di nobili.
Il 24 giugno del 1148 la più massiccia armata di crociati di tutti i tempi si era accampata nei frutteti intorno a Damasco.
Scrivendo a Ben Yijū, tuttavia, Khalaf non si dilunga affatto su questi avvenimenti. Parla di alcune merci inviategli da Ben Yijū, un carico di noci d’areca, due serrature prodotte in India, due coppe d’ottone, e annuncia all’amico che insieme con la lettera gli manderà alcuni doni: due vasi di zucchero, un vaso di mandorle e due di uvetta.
Alla fine della missiva, Khalaf ibn Ishaq nomina quasi di sfuggita uno schiavo indiano di Ben Yijū al quale raccomanda di porgere «moltissimi ringraziamenti».
La lettera è catalogata come manoscritto H.6 alla Biblioteca Nazionale e Universitaria di Gerusalemme.
Attraversando i sottili confini che separano il presente dal passato, con in mano soltanto il frammento di questa lettera, Amitav Ghosh si mette alla ricerca dello schiavo indiano che vi è nominato, una figura che gli appare come una chiave per intendere e raccontare una Storia fatta di tante storie, diaspore e guerre, tradizioni e incontri, rotture e sparizioni.
Centro della vicenda sono due villaggi egiziani, luoghi di uno straordinario apprendistato linguistico e umano, e punti di partenza per una lunga indagine: per più di dieci anni Ghosh insegue lo sconosciuto, costruendo un meraviglioso romanzo in cui tutto è rigorosamente vero.
Ombra consapevole dell’antico schiavo, il moderno ricercatore percorre un duplice itinerario: quello nell’universo medievale, lungo le rotte mercantili che dal Maghreb attraverso l’Egitto portano in India; e quello nell’universo contemporaneo, lungo le rotte aeree che da oriente portano a occidente – e da una religione all’altra, da una lingua all’altra.
«Amitav Ghosh è un grande narratore, un maestro della lingua».
Die Zeit
«Ghosh è uno scrittore seducente… un maestro, una fonte di infinito piacere per il lettore».
The Age
«Ghosh è uno degli scrittori della sua generazione dalla prosa più raffinata».
Financial Times
«Lo schiavo del manoscritto è un viaggio ricco e avvincente».
The Times